Una volta a Gela grandinò.
Ora, c’è un motivo se mi chiamano “Terrona”, ed è che io sono nata giù.
Più giù. Proprio giù giù. Che se guardi bene l’orizzonte sopra il mare riesci a intravedere l’Africa. Da noi fa caldo. Non nevica. Non grandina. A malapena piove.
Ma… quella volta grandinò.
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Sono in cortile con un secchiello e una paletta da spiaggia: riempio il secchiello di chicchi di ghiaccio grandi come gnocchi. È stupefacente.
Bene. Se devo pensare a un ricordo di pura felicità della mia infanzia eccolo qui.
Non è stato il mio solo istante di beatitudine di tutta una vita, mi spiace caro Sognatore delle Notti Bianche, la mia felicità non è rimasta incastonata tra fiori d’arancio che non ho colto, ma piuttosto disseminata qua e là. Istantanee, non ripercorribili né riproducibili.
Istanti destinati a perdersi con il sopraggiungere dell’età, forse, ma ancora vividi.
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C’è una panchina in una stazione della Romania, nessuno parla inglese né italiano e io temo di sbagliare binario, disperatamente mostro la mappa a un’anziana indicando il mio luogo di destinazione, lei mi fa cenno di sedermi e mi offre una prugna.
Sicurezza. Adozione. Felicità.

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Mi sono persa tra le campagne di Chiang Mai, cerco un luogo che si chiama “Black Temple”, che alla fine non si rivelerà nulla di che, ma per arrivarci ho preso un bus scasciato e, dato che nessuno parla né inglese né italiano, mi indicano di scendere. Che sia giunta a destinazione?
Ma trovo solo un ennesimo mercato semi-coperto. Confusione.
Cammino un po’, è tutta strada asfaltata senza nessun miraggio di indicazione. Giungo a un altro mercato improvvisato. Fa caldo. Caldissimo. Mostro sulla mappa dove devo arrivare. Qualcuno mi prende a cuore e mi conduce per braccio su un tuk-tuk. Salgo.
Sopra, dietro e intorno a me montagne di cibo non identificato in grandi buste trasparenti. “Potrebbero anche uccidermi” penso.
Ma sono egregiamente sopravvissuta.
Comicità. Surrealismo. Felicità.

(chiedo venia per i baffetti, viaggiavo da un mese con un solo zaino in spalla)
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Vago per le risaie di Sapa, da brava cogliona non ho le scarpe adatte a evitare le sangiusughe, ha piovuto ed è tutto in infernale paciupicio dove continuo a perdere l’equilibrio; chilometri dopo giungo alla dimora dei Red Dao che mi ospiteranno per la notte; puzzo e sono distrutta, mi infilano in una specie di botte-tinozza d’acqua bollente piena di erbe officinali.
Mentre mi chiedo se mi mangeranno sto attenta a rimanere bene immersa nell’acqua calda, ché sono nuda come un verme e da tutto il resto della numerosa famiglia mi divide solo un lenzuolo appeso a mo’ di stendino. Per la notte condivido il letto con un’americana, sopra il quale un groviglio di cavi elettrici funge da cielo stellato mentre fuori piove e io mi chiedo se schiatterò fulminata.
All’alba mi alzo e trovo la donna più anziana di tutte le anziane del mondo intenta ad alimentare il fuoco centrale della stanza con un grande tronco che pian piano spinge tra i carboni.
Le chiedo se posso ritrarla.
O, meglio, glielo faccio capire a gesti. Acconsente.
Non ho una foto di quell’istante sospeso, ma del terribile letto sì.
Stanchezza. Disadattamento. Felicità.

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La mia maledetta guida preferita è la Lonely Planet che puntualmente mi spinge affanculo in lande oltre i tragitti turistici. E certo, l’hanno messa a punto due fricchettoni, che cazzo m’aspetto?
Così vago tra i quartieri periferici di Sarajevo alla ricerca di una bettola dove preparano il burek migliore che sia mai stato perfezionato. Così dicono.
E la trovo. Ed è davvero una bettola oscena… la donna (donna?) al banco ha lunghe unghia rosso carminio, trucco estremo e mi chiede non in inglese né in italiano che voglio. Indico dal vetro sudicio e mi serve su un piatto ancora più sudicio la pietanza più squisita che io abbia mai gustato.
Tossinfezioni. Caparbietà. Felicità.

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Sto attraversando il lungo lungo lunghissimo Vietnam in treno.
Non esistono cabine solo femminili, bensì da 4 passeggeri. Viaggiando sola mi dico che sarà più sicuro prendere un sedile reclinabile nel vagone collettivo e mentre salgo a bordo noto che TUTTI i turisti entrano nelle cabine da 4. Non mi preoccupo e prendo posto nel mio lungo lungo lunghissimo vagone. Votmito e scaco tutta la notte nel cesso del treno grazie all’intermittenza – credo – caldo estremo VS aria condizionata polare sul treno.
Tornando al mio posto noto che il mio vicino di viaggio si è coperto con il mio sacco-lenzuolo da viaggio. Me lo rende.
All’alba vengo svegliata da una musichetta comunista sparata a gran volume in filodiffusione. Apro gli occhi cerchiati da occhiaie elefantesche e noto che TUTTI sul treno mi osservano curiosi. Realizzo di essere l’unica “bianca” là presente (e rincoglionita dall’inferno notturno) mentre gli autoctoni stanno già banchettando e sgranocchiando varie vivande. Un paio di bambini mi offrono qualcosa da mangiare. Accetto.
Estranietà. Post-mortem. Felicità.
Ecco.
La vita fuori è la solita mediocrità. Forse morirò di covid.
Ma non posso dire di non esser stata Felice.
Qualche volta.
Be’, poi ci sono stati moltissimi altri momenti di gioia.
Come la prima volta su un invito ufficiale. Insieme.
Al sapore di Piña Colada.

Ma la Felicità, la vera Felicità, è quell’istante che non muore mai.
Finché Alzheimer non mi separi.
Che tristezza Sarajevo. Io l’ho vista ancora intera (1991), mafiosi e cevabdziniche comprese.
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Consolati: ci sono ancora i cani randagi che ti inseguono di notte ❤
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